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L’ombra del Kilimanjaro

L’ombra del Kilimanjaro, The Shadow of Kilimanjaro, Rick Ridgeway
traduzione di Mary Archer, collana Le Tracce
CDA,Torino, 2000, pp.271, ill. b/n, € 18,59

Genere: viaggi

Trama

A piedi per cinquecento chilometri, guidato da due fratelli del Kenya Wildlife Service, attraverso il Parco nazionale dello Tsavo in Kenya, dalla vetta del Kilimanjaro alle spiagge dell’Oceano Indiano.
Oltre all’esperienza del contatto diretto con la fauna africana, Ridgeway (alpinista, collaboratore di National Geographic e Outside), racconta la storia del Parco, le vicende degli esploratori bianchi, l’attività di studiosi e scienziati, evidenziando nel contempo le difficoltà e le contraddizioni che la tutela degli animali produce quando interferisce con le necessità di sopravvivenza economica e sociale delle popolazioni locali.

Descrizione

Il parco nazionale dello Tsavo in Kenya, il più grande dell’Africa Orientale, si estende dai piedi del Kilimanjaro fino alle coste dell’Oceano Indiano. E’ questa grande distesa selvaggia ad essere attraversata dal gruppo di Ridgeway, composto da guardiaparco e guide locali, sempre e solamente a piedi, in una marcia che richiama volutamente alle esplorazioni bianche ottocentesche in terra d’Africa. La traversata diventa presto un intreccio di storia coloniale, vita animale e vicende umane all’interno delle riserve africane: personale del parco, scienziati, bracconieri, fotografi, scrittori.
Il racconto delle molte storie che l’alpinista americano snocciola lungo il suo itinerario ha inizio con un ricordo di Hemingway durante la salita al Kilimanjaro: negli anni ’20 lungo la via più battuta che porta alla vetta, su una roccia che da allora si chiamò Leopard’s Point, fu ritrovato a 5600 metri di quota un leopardo morto. Il ritrovamento ispirò il racconto Le nevi del Kilimajaro dello scrittore americano: “Nei pressi della cima occidentale c’è una carcassa di leopardo, rinsecchita e congelata. Nessuno ha mai saputo spiegare che cosa andasse cercando quel leopardo lassù”. Conclusa la discesa comincia la lunga marcia nella savana e il libro prende forma nel continuo alternarsi di incontri emozionanti e pericolosi con il richiamo alle vicende che hanno fatto la storia del Parco Nazionale dello Tsavo.
La descrizione della carica di un’elefantessa al gruppo di camminatori, il prezzo pagato per cercare di ottenere una ripresa più ravvicinata di un branco, ci svela una realtà ben diversa dall’immaginazione: “Ora acquista velocità. Non fa nessun rumore, non barrisce, non sbuffa, nessun ramo secco scricchiola sotto le sue zampe. Senza la minima esitazione, a testa bassa e in assoluto silenzio ci viene dritto addosso”. Il pericolo e l’emozione svelano a Ridgeway quale sia l’origine dell’attrazione dell’uomo per gli animali selvaggi, quell’ansia di confronto unita alla fascinazione che ha prodotto le stragi dei cacciatori bianchi: personaggi come Theodore Roosevelt, Denys Finch-Hatton, Philip Percival, lo stesso Hemingway, tutti uomini, scrive Ridgeway, che decantavano la fauna selvatica dell’Africa, ne auspicavano la conservazione, ne lamentavano il declino, e contemporaneamente cacciavano e sterminavano.
La nascita del parco portò, alla fine degli anni’50, al confronto con altri cacciatori profondamente diversi, ma altrettanto distruttivi per la fauna della regione dello Tsavo: i Waliangulu. Questa tribù di cacciatori di elefanti abitava da sempre queste regioni e adottava una caccia tradizionale, impiegando lunghi archi di grande potenza armati con frecce dalle punte avvelenate. L’animale cacciato veniva utilizzato in tutte le sue parti, ma in seguito, quando la richiesta d’avorio da parte di un mercato sempre più vorace divenne pressante, la comunità dei Waliangulu vide profilarsi un’importante fonte di guadagno dando il via ad una caccia con il solo scopo di procurarsi avorio da rivendere. Lo scontro con le autorità del parco esplose tra il 1955 e il 1957 nel corso della campagna contro il bracconaggio che generò però una situazione paradossale: nel momento in cui si salvavano i mammiferi dell’Africa si condannava all’estinzione una cultura nativa rimasta quasi intatta.
Il libro di Ridgeway, partendo da queste rievocazioni storiche, ha il merito di far riflettere, rifiutando le facili scorciatoie e rifuggendo dall’usurato trittico animali-bracconieri-difensori della fauna, su quanto questi problemi di compatibilità tra comunità umane e fauna non appartengano al passato, ma rappresentino una condizione del presente; oggi come allora vi è una contraddizione di fondo tra le necessità di conservare e tutelare il territorio e gli animali del parco e il miglioramento delle condizioni della gente che abita quei luoghi. L’allevamento del bestiame, l’attività sulla quale si fondavano le comunità indigene, non è compatibile con la gestione della riserva; si incoraggia per questo l’agricoltura che non rappresenta però una fonte di sussistenza sufficiente per le popolazioni locali che spesso vedono inoltre vanificati i loro sforzi come accade ad esempio con le distruzioni provocate in molte zone dal crescente numero di elefanti.
Quella dei parchi africani è perciò una realtà in continua evoluzione che richiede un costante aggiustamento di mezzi e obiettivi al quale devono partecipare tutti coloro che vivono all’interno (e ai limiti) dei territori protetti, questo perché i parchi non diventino (o non rimangano) un semplice richiamo turistico.

 

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